Il blog di Laura Cervellione

L’onore, una merce decisamente “out”. Corrado Ocone sull’Italia che resta cafonal nonostante le tirate d’orecchie di Viroli e Nussbaum

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L’Italia è un Paese stracolmo di “onorevoli”. Autentici? “Ma mi faccia il piacere!” (Totò). Una moquerie per mettere alla berlina la supposta e non provata distinzione di chi detiene un incarico di potere o ostenta autorevolezza. Il filosofo e scrittore Corrado Ocone dalle colonne del Corriere della Sera è di recente intervenuto a spiegare come in realtà il termine “onorevole” veicoli un doppio significato: da una parte, indica semplicemente chi ricopre una carica; dall’altra, è l’attributo da dare a chi è in se stesso meritevole di rispetto e onore. In particolare, Ocone si rifà alla dialettica servo-padrone, la celebre figura del filosofo tedesco Hegel esplorata nella “Fenomenologia dello spirito”. Così la commenta Ocone: “Il riconoscimento, ci ha insegnato Hegel, non è qualcosa che si dà per una semplice adesione morale dell’animo, ma lo si conquista attraverso una lotta acerrima in cui ognuno, per essere ritenuto degno della comune umanità, mette in gioco persino la vita”. Il riconoscimento dell’altrui umanità e onorabilità passa, pragmaticamente, per un confronto-scontro tra reciproci desideri di essere riconosciuti e onorati dall’altro, la cui risultante suggella un certo ordine di potere. E qui in effetti moralismi e anime belle sembrano contare poco.

Un quadro del genere è parso secondo un certo dibattito ben più aderente alla nostra realtà italica che non definizioni più religiosamente etiche e civiche. Non per niente, la figura dello spirito di Hegel, per tramite soprattutto di Kojève e i suoi ambiti seminari, ha letteralmente spopolato nella filosofia e letteratura novecentesca gettando le basi per una via alternativa per spiegare i fatti dell’ethos. Una via immanentistica, machiavellica, che non postula mondi noumenici per dare patria a una nostra diversità per principio dall’amorale realtà nuda e cruda. Così Ocone evidenzia l’astrazione e l’impotenza di quegli elenchi di pie intenzioni che si trovano nelle riflessioni di Maurizio Viroli e Martha Nussbaum. Il primo, con il suo libro La libertà dei servi (Laterza) propone senza indugi l’equazione tout court del servilismo con l’Italia di Berlusconi (così è infatti intitolata l’edizione americana del libro, appena uscita per i tipi dell’Università di Princeton). E così cade, come tanti fanno, nella tentazione autocelebrativa: “l’Italia è così” sottende molto spesso un astuto “presenti esclusi”, i quali si possono tranquillamente accomodare in un candido resort d’innocenza destinato a pochi intellettuali integerrimi. Mentre gli immorali, ovviamente, sono i molti, il popolo senza meriti, che può continuare a brancolare nell’oscurantismo etico senza avere idea di quali requisiti abbisogni per poter essere ammesso al Very Exclusive club della buoncostume. Ecco come Ocone commenta il testo di Viroli: “ La sua critica al servilismo e la difesa dell’onore che deriva dall’adempiere ai propri doveri morali si scontra infatti in lui con i limiti strutturali di ogni giacobinismo, per quanto «mite»: una divisione del mondo in buoni (i pochi) e immorali (i molti); una pericolosa autocertificazione di sé e del proprio gruppo come la parte sana della società”. (…) È chiaro comunque come Viroli, contravvenendo al principio morale dell’umiltà, ritenga di appartenere ai migliori, non esitando ad ergersi a giudice e censore di quegli italiani, la maggioranza, che sono vittime «di una secolare debolezza morale». La sua è una strategia retorica vincente”.

Ma retorica per Ocone è anche la Nussbaum, che perlomeno però risulta più raffinata con la sua utopia pedagogica da Âge des Lumières: diritti umani, classicismo, educazione, miglioramento. Belle parole, che però per il filosofo di Benevento mancano di concretezza e consapevolezza politica. Meglio l’ultimo libro di Kwame Antony Appiah Il codice d’onoreCome cambia la morale, edito da Raffaello Cortina. Il docente di Princeton servendosi di un esame sociologico comparato dimostra come la morale sia inesorabilmente legata a doppio filo alla storia: ciò che ieri era signorile e “in”, nell’immaginario sociale odierno può tramutarsi in una roba per sfigati o barbari. Anche se poi il pericolo del relativismo storico è scongiurato dal pensatore ghanese con la constatazione dell’esistenza di alcuni puntelli che reggono lo sviluppo dei paradigmi morali (archetipi junghiani sotto mentite spoglie?).

Infine, Ocone conclude la sua riflessione ponendosi alcuni interrogativi: “Le nostre società occidentali stanno forse perdendo il senso e il gusto dell’onore? Non si è per caso inceppato quel meccanismo della sanzione sociale che genera vergogna negli individui rendendo disonorevole ogni comportamento non adeguato? Che forza abbiamo nei confronti delle altre culture, se non crediamo più fortemente nei presupposti morali della nostra?”. In effetti, guardando alle patrie abitudini, sembra di trovarsi dinanzi a una rivoluzione morale che professa la filosofia dei furbetti del quartierino, un “mos” sensibile allo charme del disonore e della trasgressione, che non trova più attraente il comportamento elegante e dabbene. In parole povere, il nodo della questione è che da noi (e forse solo da noi) buone maniere e dandismi sono diventati merci molto poco “cool”. In fondo basta ritrovarsi imbottigliati in un ingorgo romano per avere la conferma di come la spudoratezza sia il dernier cri del costume collettivo, o altrimenti detto del nuovo conformismo. E paternali e giacobinismi peggiorano la situazione, provocando reazioni alla Gian Burrasca o rivendicazioni del modus vivendi “terra-terra” per la serie “così fan tutti”. Non si può pretendere in una società di liberi cittadini di stilare una lista di comandamenti civici che poi un’ipotetica massa dovrebbe docilmente adottare. Ma d’altra parte si comprende, anche se sono ancora nebbiosi gli ambiti di rilevanza di un tale appello, l’implorazione finale di Ocone alla “decenza”, un concetto proposto dal filosofo israeliano Avishai Margalit: nient’altro che quel minimo sindacabile su cui lavorare per fissare le condizioni di una qualsivoglia convivenza educata tra liberi. Questa la sua chiosa finale: “Una società senza libertà non è decente, ma indecente è anche una società senza senso dell’onore”.

Written by lauracervellione

gennaio 4, 2012 a 12:07 PM

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